IL PROCEDIMENTO PER DECRETO INGIUNTIVO
Premessa
Il procedimento per decreto ingiuntivo nasce dall’esigenza di evitare al creditore il pregiudizio derivante dai tempi ordinari di accertamento del suo diritto; il sistema per far sì che il creditore possa acquisire in tempi rapidi un titolo che gli consenta di agire esecutivamente nei confronti del debitore, è quello di prevedere, in determinate specifiche ipotesi, un accertamento sommario con efficacia provvisoria.
Il procedimento per ingiunzione, che offrendo una tutela immediata sia con riguardo ai crediti in denaro che a quelli per consegna di cose mobili, risponde ad esigenze pratiche di deflazione del processo ordinario, viene previsto nel nostro Codice di Procedura Civile sulla base di precedenti analoghi istituti presenti sia nel progetto Orlando del 1909 sia in altri progetti intermedi.
Pochi sono stati, negli anni, gli interventi della Corte Costituzionale sull’impianto originario, e la giurisprudenza sia di legittimità che di merito ha cercato, in via interpretativa, di salvaguardare le esigenze di tutela dell’intimato.
I problemi ermeneutici ed applicativi delle norme sul decreto ingiuntivo nascono dalla necessità di conciliare due diverse (e spesso opposte) esigenze: da una parte offrire al ricorrente un rapido riconoscimento del suo credito e dall’altra tutelare la posizione e le ragioni dell’ingiunto.
La struttura del procedimento
Il procedimento monitorio si articola in due fasi, di cui la prima, a carattere esclusivamente documentale, che costituisce il procedimento monitorio in senso stretto, è destinata a concludersi (per l’ipotesi che la domanda non venga rigettata) con un decreto di condanna (al pagamento di una somma di denaro ovvero alla consegna di una determinata quantità di cose fungibili ovvero alla consegna di una cosa mobile determinata) che viene emesso inaudita altera parte e quindi in totale assenza di contraddittorio; a questa fase può far seguito, ad iniziativa del debitore ingiunto, l’apertura di un procedimento ordinario, di primo grado, a cognizione piena nel corso del quale, in contraddittorio con il soggetto nei confronti del quale era stato emesso il decreto, si procede alla compiuta delibazione della pretesa azionata.
Questo meccanismo, nel quale una statuizione di tipo sommario assunta senza contraddittorio, ha l’attitudine al giudicato (nel senso che diventa definitiva qualora non venga proposta opposizione nei termini) è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale sotto diversi aspetti.
II sistema è stato ritenuto legittimo dalla Corte, con riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, sulla base dell’unitarietà dell’azione esercitata, pure se scissa in due momenti, e quindi con la valorizzazione della possibilità, per il debitore, di provocare un giudizio a cognizione piena nel quale entrambe le parti hanno le medesime facoltà e gli stessi oneri probatori previsti, in generale, nel giudizio ordinario. La Corte, in particolare, ha sottolineato che la fase sommaria non attribuisce al creditore, nel conseguente giudizio ordinario di opposizione, alcuna posizione di privilegio, né sostanziale né processuale.
Con riguardo, poi, alla norma di cui all’articolo 111 che prevede la motivazione per i provvedimenti a contenuto decisorio, si è sostenuto che la previsione di una qualche motivazione, sia pure concisa ed in ipotesi per relationem (con riferimento, quindi, al contenuto del ricorso ed ai documenti prodotti unitamente al ricorso stesso ed in esso richiamati) può trarsi dal combinato disposto degli articoli 641 (che parla di “decreto motivato”) e 135 (che richiama, in generale i casi di decreto motivato previsti dalla legge) del Codice di Procedura Civile.
Nonostante la concreta distinzione in due fasi e le numerose costruzioni dottrinarie sul punto (combinazione di due azioni; unica azione ordinaria fatta valere in forma speciale; due giudizi autonomi di cui uno speciale ed uno ordinario) dalla disciplina del Codice sembra potersi dedurre che si tratti di un’unica azione, che è quella proposta dal creditore con il deposito del ricorso per ingiunzione e ciò per le considerazioni che seguono:
l’articolo 640 comma 3 afferma che il decreto di rigetto non pregiudica la riproposizione della domanda (che è quindi unica) anche in via ordinaria;
l’accertamento del diritto fatto valere in via monitoria trova la sua fonte nel decreto ingiuntivo che diviene definitivo, con efficacia di condanna, sia nell’ipotesi di mancata opposizione, sia nell’ipotesi di rigetto totale dell’opposizione;
la domanda proposta con il decreto vincola il creditore, nel successivo giudizio di opposizione, al petitum ed alla causa petendi indicati in ricorso, restando salve solo le norme dettate, sul punto, dagli articoli 183 e 184 del Codice di Procedura Civile;
dal combinato disposto degli articoli 638 e 645 del Codice di rito si evince che l’opposizione va notificata al difensore del ricorrente e ciò avviene (in base alla norma generale di cui all’articolo 170 dello stesso Codice) solo quando la parte è costituita in giudizio e quindi quando un giudizio è già pendente;
la competenza a conoscere dell’opposizione appartiene sempre e comunque al Giudice (inteso, ovviamente, come Ufficio Giudiziario) che ha pronunciato il decreto.
Trattasi, quindi di un unico procedimento, nel quale, per la particolarità del meccanismo previsto dal Legislatore, l’editio actionis è attribuita all’attore sostanziale che è il ricorrente, mentre la vocatio in ius viene posta in essere dal convenuto sostanziale con il suo primo atto difensivo che è l’opposizione.
Presupposti di ammissibilità del decreto
La speciale tutela accordata dal Legislatore con il procedimento per decreto ingiuntivo è ancorata alla natura ed all’oggetto della pretesa nonché all’esistenza di una prova scritta.
La rubrica dell’articolo 633 del Codice di rito parla espressamente di “condizioni di ammissibilità” del procedimento per ingiunzione, precisando poi, nel corpo della norma, che la procedura in questione, a differenza del processo ordinario di cognizione (che può avere ad oggetto qualsiasi situazione giuridicamente tutelata da farsi valere con qualunque mezzo di prova) può essere attivata solo sulla base di un diritto di credito del quale si dà prova scritta e avente ad oggetto una somma di denaro, una determinata quantità di cose fungibili ovvero una cosa mobile determinata. Trattasi, come affermava già Calamandrei all’inizio del secolo scorso, dei presupposti processuali speciali della procedura monitoria che devono sussistere, nella fattispecie dedotta, unitamente ai presupposti generali comuni alle altre forme ordinarie di giudizio (giurisdizione e competenza del giudice, capacità e legittimazione delle parti).
Con riguardo al concetto di prova scritta in generale occorre notare come la nozione che se ne ricava dall’articolo 633 del Codice di Procedura Civile sia meno rigorosa di quella desumibile dagli articoli 2699 e seguenti del Codice Civile: in questi ultimi sono indicati, sotto la rubrica “prove documentali”, l’atto pubblico e la scrittura privata nonché le riproduzioni meccaniche di fatti o cose ed è sempre richiesta, in qualche modo, un’attività (quanto meno di non disconoscimento) del debitore. Nel procedimento monitorio si possono avere prove scritte che prescindono da qualsiasi comportamento o atteggiamento del soggetto nei cui confronti tali prove vengono fatte valere, anche se con efficacia limitata alla fase sommaria.
Una lettura attenta e costituzionalmente orientata delle norme sul decreto ingiuntivo porta a ritenere che il debitore, qualora venga a conoscenza della presentazione del ricorso, possa intervenire nella procedura e addurre prove a sua difesa: le norme del Codice di rito prevedono, nella fase sommaria, la mancata instaurazione del contraddittorio ma non pongono, in capo al debitore, il divieto di interloquire (in tal senso si è pronunciato il Tribunale di Bari in data 21/3/1990 ed il provvedimento è pubblicato su “Il Foro Italiano” 1991, parte prima pagina 1270).
Una limitata attività istruttoria, o meglio un limitato potere d’impulso sul piano probatorio è previsto dall’articolo 640 che al primo comma consente al giudice che ritiene “ingiustificata la domanda” di invitare il creditore ad integrare la prova.
Occorre infine rilevare, sul piano generale, l’introduzione, nell’articolo 641 (ad opera dell’articolo 9 comma 2 lettera a) del D. L.vo 9/10/2002 numero 231) del termine, per l’emissione del decreto ingiuntivo, di trenta giorni dal deposito del ricorso.
Lo stesso Decreto Legislativo, abrogando l’ultimo comma dell’articolo 633 e modificando l’articolo 641 consente l’emissione, con opportuni termini per la notifica, di decreti ingiuntivi da notificarsi all’estero.
L’oggetto del ricorso
L’utilizzazione del procedimento monitorio è consentito a fronte di un diritto di credito avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro ovvero la consegna di una determinata quantità di cose fungibili o di una cosa mobile determinata e quindi di qualsiasi prestazione di dare che costituisca il contenuto di un rapporto obbligatorio: al di fuori di tali ipotesi, il ricorso alla procedura monitoria è inammissibile.
Il credito avente ad oggetto una somma di denaro deve essere liquido, come recita l’articolo 633 comma 1 e cioè determinato nel suo ammontare sulla base di unasemplice operazione aritmetica ed esigibile nel senso che deve essere scaduto il termine previsto per l’adempimento; in particolare e con specifico riguardo anche all’elemento della prova scritta, la sussistenza del credito, la sua determinazione quantitativa e le sue condizioni di esigibilità devono essere desumibili, sulla base di parametri obiettivi, dal contenuto dei documenti prodotti con il ricorso.
Non può certamente considerarsi liquido ed esigibile il credito in ipotesi derivante da una risoluzione di contratto per inadempimento che richiede una pronuncia costitutiva della risoluzione medesima.
Sarebbe teoricamente ammissibile l’ingiunzione riguardante somme dovute a titolo di caparra o di clausola penale, ovvero a seguito di attivazione di una clausola risolutiva espressa, ferma la necessità che si dia prova scritta di tutti gli elementi posti a fondamento della domanda. Nel caso specifico della clausola penale si pone il problema della norma di cui all’articolo 1384 del Codice Civile che è applicabile d’ufficio (Cass. 24/9/1999 numero 10511 e Cass. 23/5/2003 numero 8188) ed in relazione alla quale il giudizio di equità potrebbe non essere concretamente ipotizzabile in assenza del contraddittorio.
Il requisito della esigibilità deve ritenersi implicitamente previsto dal secondo comma dell’articolo 633 che consente l’attivazione della procedura monitoria anche nel caso in cui il diritto del creditore dipenda da una controprestazione ovvero dall’avverarsi di una condizione, purché si offrano elementi tali da far presumere l’avvenuto adempimento della controprestazione ovvero l’avveramento della condizione.
Altra questione riguardante l’esigibilità del credito è quella relativa alla decadenza dal beneficio del termine prevista dall’articolo 1186 del Codice Civile, norma questa che si ritiene, in giurisprudenza, applicabile alla procedura monitoria purché, ovviamente, il creditore dia prova scritta di una delle circostanze previste dalla legge, con la precisazione che per stato di insolvenza si intende una situazione di dissesto economico che renda verosimile l’impossibilità, da parte del debitore, di far fronte alle proprie obbligazioni.
Vengono, nella pratica, invocate clausole contrattuali che prevedono, nel caso di rateizzazione del prezzo, la decadenza dal beneficio del termine a seguito del mancato pagamento di una o più delle rate previste: occorre rilevare, sul punto, come nell’ipotesi di condizioni generali di contratto occorra che la clausola in questione sia stata specificamente approvata per iscritto, ai sensi dell’articolo 1341 del Codice Civile.
Il requisito della liquidità del credito e quindi della necessaria predeterminazione dell’importo azionato ha portato la giurisprudenza ormai unanime, dopo orientamenti contrastanti composti dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione numero 2368 del 5 aprile 1986 a ritenere non riconoscibile in sede monitoria il danno da svalutazione monetaria. I fautori dell’ammissibilità di tale specifica domanda riconducevano la svalutazione monetaria nell’ambito del fatto notorio, sulla base degli indici ISTAT (Cass. 23/12/1997 numero 13006) ma la giurisprudenza più attenta e ormai consolidata ha ritenuto di valorizzare, per l’interpretazione contraria, i criteri di personalizzazione del danno (in tal senso, Cass. 15/2/1990 numero 1133) che sono di per sé inapplicabili in sede sommaria (recentemente, la sentenza della Suprema Corte numero 17396 del 17/11/2003 ha ribadito tale indirizzo, ritenendo “crediti in un certo senso indicizzati, per effetto delle disposizioni di cui agli articoli 429 del Codice di rito e 152 delle Disposizioni di Attuazione dello stesso Codice”, solo i crediti di lavoro, ed escludendo, negli altri casi, la riconoscibilità della rivalutazione monetaria in sede monitoria).
Il danno da svalutazione monetaria potrà costituire oggetto di domanda accessoria da proporsi nell’ambito del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo.
Tenuto conto dell’oggetto della tutela così come espressamente indicato dall’articolo 633 comma 1 è evidente che il procedimento per decreto non può essere attivato sulla base di un diritto reale e cioè, ad esempio, per esperire un’azione di rivendica ovvero per conseguire il rilascio di un bene immobile o per ottenere l’esecuzione di un obbligo di fare o non fare.
Si rinvengono, comunque, in giurisprudenza, pronunce di segno diverso, riguardanti cioè documenti che non possono essere oggetto della semplice consegna in quanto richiedono un’attività di elaborazione: ordine all’INPS di rilasciare un estratto conto con i dati retributivi e contributivi di un lavoratore (Pretura di Bari del 27/11/1996); ordine ad un istituto di credito di consegnare al curatore fallimentare copia degli estratti conto relativi ai rapporti intrattenuti con un soggetto fallito (Tribunale di Milano del 21/6/1996).
E’ stata altresì ritenuta legittima dalla Corte di Cassazione l’ingiunzione avente ad oggetto la consegna della chiave di accesso ad un immobile (sentenza numero 567 del 25 gennaio 1979) anche se per espresso dettato normativo (articolo 608 comma 2 del Codice di procedura Civile) la consegna delle chiavi è una delle modalità espressamente previste dal Legislatore per la consegna di un bene immobile, e la consegna di un bene immobile è implicitamente esclusa, ai sensi dell’articolo 633 comma 1 del Codice di rito, dalla tutela sommaria.
Interessante, sul punto, è la pronuncia della Suprema Corte numero 3690 del 18/11/1974 che, sulla base dell’inammissibilità della domanda, proposta nella forma del ricorso per ingiunzione, con la quale era stata esercitata un’azione di rivendicazione avente per oggetto una cosa mobile determinata, ha ritenuto l’irrituale instaurazione e l’irrituale svolgimento del processo di primo grado (e quindi anche della fase a cognizione ordinaria aperta con l’opposizione) statuendo che il giudice dell’opposizione, rilevata, anche d’ufficio, l’inammissibilità del ricorso nel senso indicato, avrebbe dovuto limitarsi a revocare il decreto ingiuntivo senza procedere ulteriormente all’esame della domanda nel merito.
Un’ultima notazione in punto di oggetto dell’ingiunzione riguarda la norma di cui all’articolo 639 che prescrive al ricorrente per consegna di una determinata quantità di cose fungibili, di indicare la somma che è disponibile ad accettare, in mancanza della prestazione in natura, a definitiva liberazione dell’altra parte: per quanto la norma usi la locuzione “il ricorrente deve dichiarare”, la giurisprudenza prevalente ritiene che tale indicazione non costituisca requisito di ammissibilità della domanda, ma semplice facoltà del creditore che in caso di omessa indicazione di tale somma potrà procedere esclusivamente all’esecuzione per consegna (della cosa oggetto della domanda) e non a quella per espropriazione (della somma corrispondente al valore della cosa). Il giudice del monitorio è chiamato, in questa ipotesi, ad un controllo sulla congruità della somma indicata dal creditore.
I numeri 2 e 3 del primo comma dell’articolo 633 del Codice di Procedura Civile riguardano i crediti professionali e prevedono la pronuncia di decreto ingiuntivo nell’ipotesi di credito riguardante onorari e spese per prestazioni giudiziali e stragiudiziali di Avvocati e di altri soggetti che hanno prestato la loro opera in occasione di un processo, ovvero di credito riguardante diritti e rimborsi spettanti ai Notai oppure ad altri esercenti una libera professione o arte per la quale esiste una tariffa legalmente approvata.
Si è ritenuto in qualche pronuncia di merito, che nell’ipotesi in cui sia prevista l’iscrizione all’albo quale presupposto per l’esercizio della professione, è necessario che si dia prova, in sede di richiesta di provvedimento monitorio, dell’effettiva iscrizione all’albo medesimo.
L’esplicito riferimento alle tariffe legalmente approvate va posto in relazione con i requisiti di liquidità ed esigibilità del credito nel senso che tali requisiti possono ritenersi sussistenti nell’ipotesi di predeterminazione tariffaria del compenso.
La prova scritta
Il requisito della prova scritta del credito è certamente di fondamentale importanza nella ricostruzione e nell’esame della normativa relativa al procedimento monitorio, posto che investe questioni attinenti alla ratio del sistema, ovvero alla sussistenza dei presupposti dell’alta probabilità di esistenza del credito azionato e della possibilità di un rapido riscontro della fondatezza della domanda.
L’espresso riferimento alla “prova” contenuto nell’articolo 633 comma 1 numero 1 (“se del diritto fatto valere si dà prova scritta”) lascia chiaramente intendere che il giudice non deve limitarsi ad un mero riscontro formale della scrittura, ma deve effettuare un vero e proprio giudizio di idoneità del documento a rappresentare il fatto costitutivo della domanda.
E’ certo che nel procedimento monitorio la prova scritta può essere costituita da qualsiasi documento, anche se privo dell’efficacia probatoria assoluta prevista dagli articoli 2700 e 2702 del Codice Civile ed anche se non costituisce piena prova dell’esistenza del diritto azionato, tant’è che il creditore può integrare, con efficacia retroattiva, nell’eventuale successivo giudizio di opposizione, la prova fornita nella fase sommaria (in tal senso: Cass. 25/3/1971 numero 845; Cass. 20/6/1983 numero 4234 e Cass. 9/10/2000 numero 13429).
La prima questione che si pone è quella dell’autenticità della scrittura e cioè della corrispondenza tra sottoscrittore apparente e sottoscrittore effettivo del documento.
Per la scrittura privata non autenticata o non accertata giudizialmente, la mancanza del contraddittorio non consente l’utilizzazione dei meccanismi processuali previsti dagli articoli 214 (mancato disconoscimento) e 215 (riconoscimento tacito) del Codice di Procedura Civile. Sarà quindi il prudente apprezzamento del giudice, effettuato sulla base delle regole di comune esperienza, a verificare la portata probatoria di una scrittura privata non autenticata (si pensi al caso, classico, della firma illeggibile ovvero non riferibile oggettivamente al soggetto indicato come debitore).
Il documento, per essere considerato fonte di prova di un credito, deve contenere un qualche elemento concreto riferibile al credito stesso. Sotto tale profilo è stata ritenuta sufficiente la prova indiretta, che ricorre nell’ipotesi in cui il fatto rappresentato documentalmente e quindi certo, sia idoneo a dimostrare in via induttiva e presuntiva i fatti costitutivi del diritto del ricorrente ed è stato altresì ritenuto sufficiente il documento proveniente da un terzo (in tal senso, Cass. 9/10/2000 numero 13429).
Con specifico riferimento alla prova scritta proveniente da terzi ed in astratto sufficiente a supportare un ricorso per decreto ingiuntivo, la Corte di Cassazione ha ritenuto idonea a dimostrare il credito vantato nei confronti di una società in accomandita semplice, una bolla di consegna di merce sottoscritta dal socio accomandante della società stessa (Cass. 8/5/1976 numero 1625); con altra pronuncia, ha ritenuto idoneo a costituire fondamento per un provvedimento monitorio un testamento pubblico con il quale il de cuius aveva imposto al suo erede l’obbligo di versare all’istituto che lo aveva ospitato in vita, l’indennità di accompagnamento cui il testatore aveva diritto e che era stata riscossa dall’erede dopo la sua morte (Cass. 12/7/2000 numero 9232).
Può affermarsi, in generale, sul punto, che il Legislatore abbia inteso perseguire l’obiettivo della pronta attuazione del diritto del ricorrente da una parte utilizzando il principio del libero convincimento del giudice previsto dall’articolo 116 del Codice di Procedura Civile (articolo 633 comma 1 numero 1) e dall’altra indicando delle specifiche ipotesi di scritture per le quali la valutazione dell’efficacia probatoria è predeterminata dalla Legge (articolo 633 comma 1 numeri 2 e 3 nonché articolo 634).
Trattasi, in particolare, delle seguenti ipotesi:
ESTRATTI AUTENTICI DELLE SCRITTURE CONTABILI DI CUI AGLI ARTICOLI 2214 E SEGUENTI DEL CODICE CIVILE, nonché ESTRATTI AUTENTICI DELLE SCRITTURE CONTABILI PRESCRITTE DALLE LEGGI TRIBUTARIE previsti dall’articolo 634 comma 2 purché, le prime, “bollate, vidimate e regolarmente tenute”, e le altre “tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture” e con riferimento, per entrambe le categorie di documenti, alle somministrazioni di merci e di denaro nonché alle prestazioni di servizi. Tali documenti costituiscono prova scritta (del credito dell’imprenditore) anche nei confronti di persone che non esercitano attività commerciale, e ciò in deroga alla norma di cui all’articolo 2710 del Codice Civile che prevede l’efficacia probatoria dei libri contabili solo nei rapporti tra imprenditori: l’articolo 634 del Codice di Procedura Civile costituisce, quindi, norma speciale rispetto a quella di cui all’articolo 2710 citato. L’esplicito riferimento alla prestazione di servizi è stato introdotto con la Legge 432 del 1995 che ha recepito un orientamento che andava affermandosi nella giurisprudenza di merito. Occorre rilevare, per completezza sul punto, come nel caso più comune dato dalle prestazioni oggetto di fatture, il documento con valenza probatoria privilegiata è l’estratto autentico delle scritture contabili o tributarie, fermo restando che la fattura in sé, eventualmente corredata di altra documentazione riguardante, ad esempio, il trasporto e la ricezione della merce, può costituire prova scritta in base alla norma generale di cui all’articolo 633. Restano, ovviamente, profili di dubbio sia perché la fattura è un documento formato dalla stessa parte che se ne avvale e si riferisce al momento esecutivo del contratto, sia perché non sempre il documento di consegna o trasporto (in ipotesi sottoscritto dall’intimato) indica la causale della consegna della merce, che potrebbe riferirsi ad ipotesi diversa dalla vendita. L’articolo 8 della Legge 18 ottobre 2001 numero 383 ha modificato sia l’articolo 2215 del Codice Civile, sia l’articolo 39 comma 1 del D.P.R. 26/10/1972 numero 633 (Legge I.V.A.) eliminando la vidimazione, tra l’altro, del registro delle fatture. Sono rimaste immutate le norme, espressamente richiamate nel testo di legge, di cui all’articolo 2219 del Codice Civile che prevede il rispetto dei canoni dell’ordinata contabilità, vieta gli spazi in bianco, le interlinee, i trasporti a margine e le abrasioni e disciplina le modalità delle cancellazioni. A norma dell’articolo 634 comma 2, gli estratti autentici dovrebbero contenere l’espressa precisazione che il registro è numerato progressivamente in ogni pagina e regolarmente tenuto.
CREDITI DELLO STATO, DI ENTI PUBBLICI E DELLE BANCHE: l’articolo 635 attribuisce un’efficacia probatoria privilegiata a documenti che come quelli precedentemente esaminati provengono dalla stessa parte che li allega. L’articolo 50 del D.L.vo 1 settembre 1993 numero 385 “Testo Unico delle Leggi in Materia Bancaria e Creditizia” prevede espressamente che “La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 635 del Codice di Procedura Civile anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido”.
CREDITI PREVIDENZIALI: analoga efficacia è attribuita dall’articolo 635 comma 2 agli accertamenti eseguiti dall’ispettorato del lavoro (ora Direzione Provinciale o Regionale del Lavoro) o dai funzionari degli enti di previdenza e assistenza contributive; la competenza ad emettere il decreto è del giudice del lavoro ed il decreto medesimo può riguardare anche le sanzioni civili. La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale la quale, con la sentenza numero 376 del 4 novembre 1987, ha respinto l’eccezione di legittimità sul rilievo che l’emissione del decreto non si fonda sulla mera affermazione del ricorrente, ma sulle indagini comunque effettuate, in contraddittorio con il debitore, dai competenti organi amministrativi.
PARCELLE PER SPESE E PRESTAZIONI: l’articolo 636, con esplicito riferimento alle ipotesi di cui ai numeri 2 e 3 dell’articolo 633 di cui si è già detto, prescrive che la domanda sia “accompagnata” dalla parcella delle spese e prestazioni, sottoscritta dal ricorrente e corredata del parere dell’associazione professionale. La Corte Costituzionale, con le sentenze numero 137 del 4 maggio 1984 e 34 del 19 gennaio 1988, ha affermato che il Consiglio dell’Ordine non deve limitarsi a fornire un mero parere di congruità in relazione alle voci di tariffa indicate dal professionista, ma deve estendere la sua indagine al “se” ed al “come” le prestazioni siano state effettuate. La giurisprudenza, anche di legittimità, ha ritenuto, nonostante le indicazioni della Corte Costituzionale, di considerare la parcella del professionista assistita da una presunzione di veridicità sul presupposto che l’iscrizione all’albo è, di per sé, garanzia della serietà del professionista (Cass. 30/1/1997 numero 932). Possono comunque ritenersi fermi, in tema di parcelle professionali, i seguenti principi: la parcella, che ha valore di prova privilegiata nella fase sommaria, non ha in sé valore probatorio nel successivo giudizio di opposizione (Cass. 30/7/2004 numero 14556) giudizio questo nel quale la determinazione del compenso al professionista deve seguire i criteri stabiliti dall’articolo 2233 del Codice Civile (Cass. 30/10/1996 numero 9514); il parere espresso sulla parcella dell’Avvocato dal competente organo professionale costituisce un mero controllo sulla rispondenza delle voci indicate a quelle previste dalla tariffa (Cass. 30/1/1997 numero 932).
TELEGRAMMI: sono indicati, dall’articolo 634 comma 1, come “prove scritte idonee a norma del numero 1 dell’articolo precedente, anche se non sottoscritti da colui che li invia” e ciò in deroga a quanto previsto dall’articolo 2705 del Codice Civile.
POLIZZE: indicate anche queste al primo comma dell’articolo 634 comma 1, riguardano la polizza di carico rilasciata dal vettore, la fede di deposito dei magazzini generali, la polizza dell’assicuratore ai fini della domanda di pagamento del premio o della rata scaduti nel termine semestrale di cui all’articolo 1984 del Codice Civile.
PROMESSE UNILATERALI PER SCRITTURA PRIVATA: sono previste al comma 1 dell’articolo 634; l’ipotesi più interessante è quella dei concorsi pubblici a premi, nei quali la prestazione promessa a favore del vincitore può trarre origine dalla stessa dichiarazione del promittente, dichiarazione questa che, se redatta per iscritto, è prova valida ai fini dell’ingiunzione; altro caso esemplificativo potrebbe essere quello del verbale notarile di estrazione a sorte dei premi di un concorso.
DELIBERAZIONI DELL’ASSEMBLEA CONDOMINIALE: come previsto dall’articolo 63 delle Disposizioni di Attuazione del Codice Civile, per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea del condominio. Trattasi delle spese condominiali in genere, contemplate nell’articolo 1123 del Codice Civile (Cass. 25/6/2001 numero 8676); la norma riguarda un’ipotesi di prova scritta del credito non proveniente dal debitore e richiede l’approvazione del bilancio, sia esso preventivo o consuntivo, da parte dell’assemblea (Cass. 8/3/2001 numero 3435); è stato ritenuto idoneo, come prova scritta, al solo fine di ottenere l’ingiunzione, il verbale di un’assemblea condominiale contenente l’indicazione delle spese deliberate sul presupposto che l’approvazione dello stato di ripartizione è necessario per l’ulteriore fine di ottenere la clausola di provvisoria esecutività del decreto (Cass. 21/11/2000 numero 15017 e Cass. 29/3/2001 numero 4638)
Ipotesi particolari di prova scritta devono ritenersi i titoli di credito ed i provvedimenti giurisdizionali.
I titoli di credito, ed in particolare la cambiale e l’assegno, sono richiamati, ai fini dell’autorizzazione alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, dall’articolo 642. Tali documenti rientrano nella previsione normativa di carattere generale del numero 1 dell’articolo 633 con la precisazione che se sono privi dei requisiti formali prescritti dalla legge possono valere come promesse di pagamento ed in questo caso assumono efficacia probatoria solo nei rapporti tra l’emittente ed il prenditore del titolo, ovvero tra il giratario ed il proprio girante: solo tra queste coppie di soggetti può infatti concretamente configurarsi una promessa di pagamento.
I provvedimenti giurisdizionali, ed in particolare le sentenza di condanna, non possono, in generale, costituire il presupposto per l’emissione di un decreto ingiuntivo: stante l’esecutività anche della sentenza di condanna non ancora passata in giudicato, il ricorrente incorrerebbe nel divieto del bis in idem e comunque, essendo già in possesso di un titolo esecutivo non avrebbe interesse all’emissione del decreto ingiuntivo; nel caso di sospensione dell’esecutività, invece, si verificherebbe un’ipotesi di litispendenza.
La condanna generica non è stata ritenuta idonea a costituire prova scritta del credito in sede monitoria; si è però affermato in giurisprudenza (Cass. 13/4/1993 numero 4368 e Cass. 4/6/2003 numero 8915) che tale sentenza è utilizzabile come prova scritta ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo nell’ipotesi in cui l’ammontare del credito possa essere desunto da un diverso documento.
Un’ipotesi particolare di prova scritta basata, anche se non esclusivamente, su una sentenza di accertamento è quella recentemente indicata dalla Corte di Cassazione (sentenza numero 577 del 13/1/2005) che ha dichiarato idonea allo scopo una sentenza di determinazione dell’equo canone nel senso di ritenere legittimo il decreto ingiuntivo emesso per la differenza tra quanto pagato (e documentato) e quanto dovuto sulla base delle sentenza di accertamento.
Si è ritenuta infine ammissibile l’instaurazione di un procedimento monitorio sulla base di un lodo arbitrale irrituale (Cass. 28/9/1988 numero 5260 e Cass. 9/7/1989 numero 3246).
La competenza ad emettere il decreto ingiuntivo
La regola generale è dettata dal primo comma dell’articolo 637: la competenza ad emettere il decreto ingiuntivo spetta al giudice che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria. Sulla base di tale espresso richiamo normativo si ritiene, comunemente, che trovino applicazione anche nel procedimento monitorio tutte le regole dettate dal Codice di rito sulla competenza ed in particolare l’articolo 38 del Codice di Procedura Civile per cui l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio prevista dall’articolo 28 del Codice di rito sono le uniche rilevabili d’ufficio anche nella fase sommaria.
Ci si è chiesti, in dottrina, anche sulla base di alcune pronunce di merito e di ordinanze che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale (degli articoli 637 e 38 in relazione all’articolo 25 della Costituzione) se le norme sulla competenza dettate per il giudizio ordinario siano acriticamente e pedissequamente applicabili al procedimento monitorio, nel senso della non rilevabilità d’ufficio al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 38.
In particolare (per limitarci alle affermazioni contenute nella giurisprudenza che, sul punto, è solo di merito e nettamente minoritaria) il Pretore di Carrara, in un caso di palese incompetenza territoriale, dopo aver invitato il ricorrente (ai sensi dell’articolo 640 comma 1) a precisare le ragioni per cui avesse ritenuto sussistente la competenza del giudice adito e ricevuto, in riposta, il deposito di sentenze nelle quali si affermava la non rilevabilità d’ufficio, in sede monitoria, della incompetenza per territorio derogabile, con decreto emesso ai sensi del secondo comma dello steso articolo 640 in data 18/4/1996, ha rigettato la domanda asserendo che “…nel procedimento a contraddittorio posticipato quale è quello per decreto ingiuntivo, il rilievo dell’incompetenza per territorio, ancorché derogabile, non può essere lasciato all’iniziativa della controparte, poiché per il giudizio monitorio non opera il principio della translatio iudicii e l’incompetenza del giudice adito comporta la reiezione della domanda…non potendosi certo ipotizzare una consapevole acquiescenza del magistrato, tenuto al rispetto della legge, ad iniziative idonee a rendere più gravosa la difesa dell’intimato e quindi contraria al dovere di lealtà e probità di cui all’articolo 88 del Codice di Procedura Civile”.
Con riferimento al giudizio ordinario, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di precisare (sentenza 28 novembre 1986 numero 251 e sentenza 14 dicembre 1993 numero 434) che la mancata costituzione del convenuto citato innanzi ad un giudice territorialmente incompetente non può interpretarsi come implicita contestazione della competenza del giudice adito, per cui nel giudizio ordinario il convenuto può sempre essere citato innanzi ad un giudice incompetente per territorio, lasciandosi alla sua disponibilità l’alternativa tra la contestazione della competenza e la formazione di un accordo, eventualmente per facta concludentia, sulla competenza derogabile.
Nel procedimento per decreto ingiuntivo la questione si pone in termini diversi, posto che ad esito della fase sommaria e priva di contraddittorio, il debitore può subire l’emanazione di un provvedimento di condanna, in ipotesi immediatamente esecutivo (i presupposti per la concessione della provvisoria immediata esecutività sono infatti svincolati dalla questione relativa alla competenza) senza aver avuto neanche la possibilità teorica di contestare la competenza del giudice adito ovvero di acconsentire ad una deroga alla regola generale sulla competenza.
In realtà, il meccanismo dell’articolo 38, pensato per l’ordinario giudizio di cognizione, a contraddittorio preventivo rispetto a qualsiasi pronuncia tanto sulla competenza quanto sul merito, è dubbio che possa essere fondatamente richiamato anche con riferimento al procedimento sommario di ingiunzione che è un procedimento a contraddittorio eventuale e differito.
Mi piace ricordare, per concludere sul punto, che Salvatore Satta nel suo Commentario al Codice di Procedura Civile del 1968 affermava che “…nel procedimento sommario la competenza agisce da condizione di ammissibilità e pertanto il giudice non ha limiti nei poteri dispositivi delle parti…”, con ciò ipotizzando la possibilità, negata dalla giurisprudenza di legittimità, che il giudice rilevi d’ufficio la propria incompetenza territoriale già nella fase sommaria.
In ordine alla competenza territoriale assume rilievo, in via generale, il Foro del convenuto debitore ai sensi degli articoli 18 e 19 del Codice di Procedura Civile; concorrono con tale Foro i Fori facoltativi di cui all’articolo 20 e cioè il luogo in cui l’obbligazione è sorta (Forum contractus) e il luogo in cui l’obbligazione deve eseguirsi (Forum solutionis). Vanno tenute presenti, a tale proposito, le norme di cui agli articoli 1182 comma 3 (in via generale) e 1498 comma 3 (in tema di vendita) che indicano il luogo di adempimento dell’obbligazione pecuniaria nel domicilio del creditore.
Regole particolari riguardanti i Fori alternativi sono previste dall’articolo 637 per i crediti di Avvocati e Notai: i primi possono rivolgersi anche all’ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale si riferisce il credito azionato; i Notai possono chiedere il provvedimento monitorio al giudice del luogo in cui si trova il loro ufficio; entrambe le categorie professionali godono altresì della possibilità di adire l’Autorità Giudiziaria del luogo in cui ha sede, rispettivamente, l’Associazione Professionale e il Consiglio Notarile di riferimento.
Si applica anche al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la regola dettata dall’articolo 38 del Codice di rito, in base al quale l’incompetenza per territorio derogabile va eccepita con la comparsa di riposta, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo coincide con l’atto di opposizione.
Con riguardo alla competenza per valore occorre fare riferimento alla data del deposito del ricorso che costituisce il momento in cui è proposta la domanda: ai fini della determinazione del valore della causa, quindi, al capitale vanno sommati gli interessi maturati sino a quella data.
L’ipotesi di arbitrato libero o irrituale, dà luogo ad una questione di proponibilità dell’azione (e non di competenza) che non può essere rilevata d’ufficio (Cass. 10/4/1990 numero 2987 e Cass. 23/2/1987 numero 1909).
La presenza di una clausola di arbitrato rituale, che riguarda una questione di competenza di carattere relativo e quindi derogabile, consente comunque di proporre il ricorso monitorio (Cass. 18/2/1986 numero 365).
La pendenza di un giudizio ordinario di cognizione, promosso dal debitore per ottenere l’accertamento negativo del credito vantato dalla controparte non osta a che il creditore possa chiedere ed ottenere dallo stesso giudice un decreto ingiuntivo per quel medesimo credito in quanto, ai sensi dell’articolo 643 è la notificazione del decreto a determinare la pendenza della lite, per cui non è ipotizzabile la litispendenza all’atto della proposizione del ricorso.
Integrazione della prova, rigetto ed accoglimento della domanda
Nella fase sommaria il giudice del monitorio ha il potere di supplire alla carente produzione documentale del ricorrente invitandolo alle necessarie integrazioni ovvero quello di chiedere chiarimenti in ordine alla documentazione prodotta, e ciò in base alla previsione di cui all’articolo 640 primo comma. La norma nulla dice in ordine alla forma dell’invito, che comunque dovrà essere redatto per iscritto (anche a margine del ricorso o sulla copertina del fascicolo) e datato, soprattutto con riferimento alla norma introdotta con il D. L.vo 231/2002 che prevede un termine per l’emissione del decreto ingiuntivo.
Il secondo ed il terzo comma dell’articolo 640 disciplinano le ipotesi di rigetto della domanda, rigetto questo previsto nel caso in cui il ricorrente non risponda all’invito di integrare la prova, ovvero, come pleonasticamente indicato dal Legislatore, se la domanda non è accoglibile, il che può avvenire, ovviamente, sia per motivi di merito che di rito.
La norma precisa che il decreto di rigetto deve essere motivato e di regola esso è steso in calce al ricorso, ai sensi dell’articolo 135 comma 2 del Codice di Procedura Civile.
Il decreto di rigetto non pregiudica, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 640, la possibilità di riproporre la domanda; la ratio della norma è intuitiva, e sul piano sistematico si è precisato che il rigetto per motivi di rito ha carattere processuale e quello fondato su ragioni di merito ha, comunque, contenuto processuale.
E’ pacifico che tale decreto non è impugnabile (Cass. 9/12/1993 numero 12138) in quanto inidoneo al giudicato.
Il decreto che accoglie il ricorso contiene l’ingiunzione di pagamento o di consegna, la liquidazione delle spese e l’indicazione del termine per il pagamento o per l’opposizione, che, normalmente, è di quaranta giorni e che, ai sensi del secondo comma dell’articolo 641, in presenza di giusti motivi, può essere ridotto sino a dieci ovvero aumentato sino a sessanta.
L’ingiunzione può essere accolta parzialmente e la notificazione del decreto, in questo caso, non determina acquiescenza al provvedimento e conseguente rinuncia al residuo, posto che essa tende esclusivamente ad impedire la caducazione del decreto per la parte di domanda che ha formato oggetto dell’ingiunzione.
Con la modifica apportata dall’articolo 9 del D.L.vo 231/2002 al secondo comma dell’articolo 641, è consentita l’emissione del decreto ingiuntivo nell’ipotesi in cui l’intimato risieda all’estero, con la sola diversificazione del termine per il pagamento o l’opposizione.
L’autorizzazione alla provvisoria esecuzione del decreto
Una delibazione certamente delicata che il giudice è chiamato a compiere già nella fase monitoria, una volta ritenuta la sussistenza della prova scritta del credito azionato, è quella relativa alla sussistenza dei presupposti per l’autorizzazione alla provvisoria esecuzione del decreto, ai sensi dell’articolo 642.
Occorre distinguere due ipotesi: la prima, che è vincolata, è quella indicata nel primo comma dell’articolo e dipende dalla qualità della prova scritta fornita, riguardando i crediti fondati su assegno, cambiale, certificato di liquidazione di borsa e atti ricevuti da notaio o da latro pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Si è ritenuto in giurisprudenza che l’elencazione, pur se “di stretta interpretazione” (Cass. 20/7/1965 numero 1647) non sia tassativa (lettura questa non seguita dalla dottrina) dovendosi ampliare la portata della norma per ricomprendervi gli atti che abbiano caratteristiche sostanziali analoghe o addirittura identiche a quelle dei titoli elencati nella norma. Si è ritenuto, in particolare, che la provvisoria esecutività possa basarsi su una sentenza che contenga una statuizione di condanna nella sola motivazione e non nel dispositivo: il caso è quello di pronuncia di revocatoria fallimentare priva, nel dispositivo, della condanna alla restituzione dei pagamenti eseguiti, condanna questa indicata in motivazione.
E’ controversa l’applicabilità della norma in esame nell’ipotesi di assegno per il quale l’azione di regresso si sia prescritta (termine di sei mesi ai sensi dell’articolo 75 della Legge 21/12/1933 numero 1736) e, analogamente, di cambiale per la quale si sia prescritta l’azione cambiaria (tre anni ai sensi dell’articolo 94 del R.D. 5/12/1933 numero 1669). Si è sostenuto, infatti, che la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, per cui il giudice non dovrebbe tenerne conto; d’altra parte occorre anche considerare che la particolare valenza probatoria del titolo è svilita nell’ipotesi di intervenuta prescrizione.
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza numero 12388 del 19/9/2000) ha ritenuto legittima l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ai sensi dell’articolo 642 comma 1 sulla base della produzione di una fotocopia del titolo. L’assunto non sembra condivisibile, tanto più che nell’ipotesi di proposizione dell’azione causale (quindi nei rapporti tra il prenditore ed il traente ovvero tra il giratario ed il proprio girante) il portatore non può agire se non depositando il titolo ed in tal modo offrendolo in restituzione al debitore, ai sensi dell’articolo 66 comma 3 della Legge Cambiaria (R.D. 5 dicembre 1933 numero 1669).
Altra ipotesi di provvisoria esecutività vincolata, della quale, peraltro si è già parlato, è quella prevista dall’articolo 63 comma 1 delle Disposizioni di Attuazione del Codice Civile, per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea condominiale.
Ai sensi del secondo comma dell’articolo 642, la provvisoria esecutività del decreto può essere concessa, con valutazione discrezionale del giudice, se vi è “grave pericolo nel ritardo”, in presenza, cioè, di una situazione di dissesto, ovvero di una situazione patrimoniale del debitore tale da potersi ritenere seriamente minacciata l’aspettativa del ricorrente di vedere realizzata la pretesa creditoria.
La notificazione del decreto
Il decreto ingiuntivo può acquistare efficacia di cosa giudicata solo se portato formalmente a conoscenza dell’ingiunto; l’articolo 644 statuisce infatti che il decreto diventa inefficace se la notificazione non viene eseguita nel termine di sessanta giorni dalla pronuncia, ove per “pronuncia” deve intendersi non la data del provvedimento, ma quella del deposito in cancelleria. Nell’ipotesi di inefficacia conseguente all’omessa notificazione, per espressa previsione dell’ultima parte dell’articolo 644, la domanda può essere riproposta.
Il termine per la notifica rimane sospeso nel periodo feriale.
L’articolo 188 delle Disposizioni di Attuazione del Codice di Procedura Civile prevede che “la parte alla quale non è stato notificato il decreto d’ingiunzione nei termini di cui all’articolo 644…può chiedere, con ricorso al giudice che ha pronunciato il decreto, che ne dichiari l’inefficacia”.
Con riguardo alla notificazione possono quindi realizzarsi le seguenti ipotesi:
omessa notifica: il debitore potrà attivare la procedura di cui all’articolo 188 citato per far dichiarare l’inefficacia del provvedimento e ne avrà interesse se il decreto è provvisoriamente esecutivo;
notifica effettuata oltre il termine di legge: l’inefficacia può essere fatta valere solo con l’opposizione ordinaria (proposta ai sensi dell’articolo 645); ad esito del giudizio, il giudice, che dovrà comunque pronunciarsi sul merito della pretesa fatta valere con il ricorso per ingiunzione, dichiarerà inefficace il decreto con la conseguenza che le spese dell’atto rimarranno a carico del creditore;
notifica nulla: l’intimato potrà proporre opposizione tardiva (oltre il termine fissato nel decreto) ai sensi dell’articolo 650 che richiede la prova di non avere avuto tempestiva conoscenza del decreto “per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore” (in tal senso, Cass. 26/7/2001 numero 10183); tale opposizione non può più proporsi, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 650, “decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione”;
notifica inesistente: può ipotizzarsi nel caso di notificazione in luogo ed a persona non riferibili al debitore (Cass. 1/6/2004 numero 10495) e sembrerebbe legittimare i rimedi previsti dagli articoli 188 (Disp. Att.) e 650 citati ma non l’opposizione ordinaria prevista dall’articolo 645 che presuppone la notifica del decreto.
Con la modifica apportata dal D. L.vo 9 ottobre 2002 numero 231 che ha abrogato l’ultimo comma dell’articolo 633, è possibile l’emissione del decreto ingiuntivo anche nell’ipotesi in cui la notificazione all’intimato deve avvenire al di fuori del territorio della Repubblica. L’eventuale residenza all’estero dell’ingiunto rileverà, ai sensi del secondo comma dell’articolo 641 come modificato dall’articolo 9 del D. L.vo 231/2002 citato, con riguardo al termine previsto per proporre opposizione: cinquanta giorni riducibili sino a venti per gli stati dell’Unione Europea e sessanta giorni riducibili a trenta e prolungabili a centoventi per gli altri Stati.
Le modalità di notificazione del decreto sono regolate dall’articolo 643 sul modello della notificazione della sentenza (articolo 285) con la precisazione che essa avviene a norma degli articoli 137 e seguenti, cioè al debitore personalmente in quanto manca il contraddittorio. Il ricorso e il decreto costituiscono un unico atto, inscindibile sia formalmente che sostanzialmente, anche perché la motivazione del decreto è contenuta (per relationem) nel ricorso.
L’ultimo comma dell’articolo 643 precisa che “la notificazione determina la pendenza della lite”.
L’articolo 654 esclude espressamente l’operatività, nel caso di decreto ingiuntivo, della norma di cui all’articolo 479 (che prescrive la notifica del titolo esecutivo e del precetto prima dell’inizio dell’esecuzione forzata): non occorrerà notificare nuovamente il decreto una volta che sia stato dichiarato esecutivo, ma nel precetto dovrà farsi menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’avvenuta apposizione della formula.
Una fattispecie particolare è quella del decreto ingiuntivo emesso nei confronti di un soggetto deceduto al momento della pronuncia: in tale ipotesi il decreto è inesistente e gli eredi ai quali il provvedimento sia stato notificato collettivamente e impersonalmente potranno dedurre l’inesistenza del titolo esecutivo con l’opposizione all’esecuzione senza necessità di dover ricorrere ad un’opposizione tardiva (Cass. 12/8/1992 numero 9526).
Si è discusso, sia in dottrina che in giurisprudenza, dell’applicabilità della norma di cui all’articolo 184 bis del Codice di rito al procedimento per decreto, posto che alcuni giudici di merito hanno ritenuto di poter rimettere in termini, per la notificazione del decreto, il ricorrente che dimostri di non aver potuto rispettare il termine per causa a lui non imputabile: l’ipotesi classica è quella del trasferimento di residenza dell’intimato.
La questione si è posta in quanto è certamente inapplicabile al procedimento per decreto l’articolo 154 del Codice di Procedura Civile, che riguarda la prorogabilità dei termini ordinatori: la norma è riferibile, per espressa previsione legislativa, al “… termine che non sia stabilito a pena di decadenza…”, mentre nel caso di specie ci troviamo di fronte ad un termine certamente perentorio, posto che la sua inosservanza determina, come abbiamo visto, l’inefficacia del decreto.
L’applicazione, sulla base di un’interpretazione estensiva, della norma di cui all’articolo 184 bis al procedimento per decreto appare improponibile.
L’istituto della remissione in termini è inserito nell’ambito delle regole di trattazione della causa dinanzi al Tribunale e la disciplina del decreto ingiuntivo non prevede rimedi nel caso di inefficacia conseguente alla decadenza per fatto non imputabile al creditore; la ratio della norma in esame appare incompatibile con il procedimento monitorio per cui si deve concludere nel senso dell’inapplicabilità dell’istituto della remissione in termini al procedimento per decreto ingiuntivo.
La questione è comunque destinata a svuotarsi di rilevanza pratica e ciò sulla base del più recente orientamento della Corte di Cassazione in ordine all’individuazione del momento in cui deve ritenersi perfezionata la notifica per il notificante con riguardo alla pendenza di un termine posto a carico del notificante medesimo: la Suprema Corte ha ritenuto, infatti, che la notifica, a tali fini, deve ritenersi eseguita con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (Cass. 10/11/2004 numero 21409).
Le nuove norme introdotte con il D.L.vo 23/10/2002 numero 231
In base al combinato disposto degli articoli 1 comma 1 e 2 del Decreto Legislativo 231/2002, le norme in esso contenute si applicano nell’ambito delle “transazioni commerciali” intendendosi con tale espressione “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo”; imprenditore, in quest’ambito, va qualificato, ai sensi della lettera c) dello stesso articolo 2 “…ogni soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione..”. Sono quindi escluse le “transazioni” nei confronti di privati.
L’articolo 9 ha apportato le seguenti modifiche agli articoli 633 – 641 e 648 del Codice di Procedura Civile: è indicato in trenta giorni dal deposito del ricorso il termine entro il quale deve essere emesso il decreto ingiuntivo; è espressamente prevista la possibilità di ricorrere al procedimento per ingiunzione anche nell’ipotesi in cui l’intimato risieda all’estero; viene espressamente consentito al giudice istruttore del giudizio di opposizione, di concedere “l’esecuzione provvisoria” (sarebbe, forse, più corretto dire “la provvisoria esecutività”) parziale del decreto ingiuntivo opposto limitatamente alle somme non contestate, salvo che l’opposizione sia proposta per vizi procedurali.
Un’importante innovazione riguarda il saggio e la decorrenza degli interessi moratori, previsti dagli articoli 4 e 5 del Decreto Legislativo in oggetto, “salvo diverso accordo tra le parti” (comma 1 dell’articolo 5) .
Trattasi di norme che si applicano, come già detto, ed unitamente alle altre contenute nel decreto, “…ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale…”, con le eccezioni indicate al comma 2 dello stesso articolo:
“debiti oggetto di procedure concorsuali”;
“pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno” (che non sono, propriamente, “transazioni commerciali” come definite dall’articolo 2);
richieste di interessi inferiori a 5,00 Euro .
Il panorama dell’ambito di applicazione del provvedimento legislativo è completato dall’articolo 11 che recita testualmente “Le disposizioni del presente decreto non si applicano ai “contratti conclusi” prima dell’8 agosto 2002.”
Le norme di carattere generale che presentano un qualche interesse con riferimento al decreto ingiuntivo sono quelle contenute negli articoli 4 e 5 che riguardano, come già detto, gli interessi moratori, da riconoscersi, come tali, se richiesti (stante la norma di cui all’articolo 5 comma 1 prima parte cui si è già fatto cenno) anche in sede monitoria.
L’articolo 1 statuisce che gli interessi decorrono “automaticamente” dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento; il senso giuridico dell’avverbio “automaticamente” è chiarito dal successivo comma 2 che ne precisa la portata con la locuzione “senza che sia necessaria la costituzione in mora”.
Il termine di pagamento, specificamente indicato nei successivi capoversi del comma 2 per l’ipotesi che esso non sia stabilito nel contratto, e qualificato come “legale”, ha la funzione di far decorrere gli interessi moratori pur in assenza di costituzione in mora.
Il sistema generale del Codice Civile prevede (articolo 1219 comma 1) la costituzione in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto ed afferma che non è necessaria l’intimazione (per cui il debitore è costituito in mora ex lege) quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler eseguire l’obbligazione e quando è scaduto il termine per l’adempimento (comma 2 dello stesso articolo). La mora ha effetti sul rischio per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione e sul risarcimento del danno che nelle obbligazioni pecuniarie è dato, ai sensi dell’articolo 1224 del Codice Civile, dagli interessi al tasso legale, salvo il maggior danno, ovvero dalla corresponsione degli interessi moratori.
Nel sistema introdotto con le norme in commento, il termine di pagamento derivante dal contratto ovvero indicato dal Legislatore determina l’obbligo di corrispondere un certo tasso di interesse, anch’esso stabilito per legge, ma non incide sulla costituzione in mora, che continua ad essere regolata dalle norma generali.
In altri termini: l’impianto generale del Codice Civile in tema di mora risulta modificato, con riguardo alle “transazioni commerciali”, solo in ordine al tasso degli interessi applicabili, che è predeterminato per legge, mentre resta invariato il regime del rischio previsto dall’articolo 1221; il termine legale di pagamento, introdotto, in mancanza di indicazione in tal senso nel contratto, dal Decreto Legislativo in esame, non vale a costituire in mora il debitore, ma ha il limitato effetto di far sorgere l’obbligo di corresponsione degli interessi moratori.
L’articolo 4 citato, al secondo comma afferma (implicitamente) che gli interessi moratori decorrono dalla data contrattualmente stabilita per il pagamento (ipotesi già prevista dall’articolo 1219 comma 2 numero 3 del Codice Civile); nell’ipotesi in cui il termine di pagamento non sia stato stabilito nel contratto (circostanza questa prevista dall’articolo 1183 del Codice Civile) indica un termine di trenta giorni che decorre dal verificarsi di una serie di circostanze previste in via alternativa (ricevimento della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente; ricevimento delle merci quando non è certa la data di ricevimento della fattura, etc.).
Con specifico riferimento al procedimento per decreto ingiuntivo, il ricorrente che chiede gli interessi moratori previsti dal Decreto Legislativo 231/2002 dovrà dare prova scritta del termine di adempimento previsto nel contratto su cui si fonda il credito azionato ovvero della data in cui si è verificata una delle circostanze previste nel secondo comma dell’articolo 4 citato.
Gli interessi in questione sono moratori predeterminati per legge e vanno distinti (anche dal punto di vista lessicale) dagli interessi legali previsti dall’articolo 1284 del Codice Civile.
Cenni sul giudizio di opposizione
Tenuto conto dei limiti della presente relazione, si può qui solo accennare ad alcuni dei problemi più rilevanti sorti con riguardo al giudizio di opposizione.
Il Codice di Procedura Civile riserva allo svolgimento del giudizio ordinario di opposizione esclusivamente le norme contenute nell’articolo 645 statuendo quanto segue:
l’opposizione si propone, con citazione, davanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto;
la notifica al ricorrente va effettuata nei luoghi indicati nell’articolo 638 e cioè presso il procuratore ovvero, nel caso di costituzione senza il patrocinio del difensore (e quindi davanti al Giudice di Pace) presso la residenza ovvero il domicilio eletto nel comune dove ha sede l’ufficio giudiziario adito;
l’ufficiale giudiziario notifica l’atto di opposizione al cancelliere perché ne prenda nota sull’originale del decreto.
Il secondo comma dell’articolo 645 statuisce poi, semplicemente, che “in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; ma i termini di comparizione sono ridotti a metà”.
Nonostante l’uso dell’indicativo presente, la norma da ultimo citata è interpretata nel senso che la riduzione dei termini costituisce una facoltà per l’opponente, nel senso che questi è libero di avvalersi del termine abbreviato ovvero di quello ordinario.
In pratica, nell’ipotesi di abbreviazione dei termini, tra la notifica dell’atto di opposizione e la data dell’udienza di prima comparizione (articolo 180 del Codice) può intercorrere un termine inferiore a quello previsto dall’articolo 163 bis. Qualora l’attore opponente si avvalga della riduzione del termine, la conseguenza di tale scelta, sul piano processuale, sarà che si ridurrà anche per esso opponente il termine per la costituzione in giudizio.
Ancora in tema di opposizione e termini processuali è importante sottolineare come nel caso di decreto ingiuntivo emesso sulla base di un credito derivante da un rapporto di locazione l’opposizione possa essere proposta anche con atto di citazione (oltre che con ricorso). La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità è assolutamente univoca nel ritenere la validità, nel caso di specie, dell’opposizione proposta con citazione ma a condizione che la stessa sia in ogni caso depositata, per l’iscrizione a ruolo, nella Cancelleria del giudice dell’opposizione, entro il termine di quaranta giorni dalla notifica (in tal senso, ex plurimis, Cass.: numero 2714 del 14/3/1991; numero 9099 del 24/8/1991 e numero 11318 del 15/10/1992).
Il dato forse più rilevante relativo al giudizio di opposizione (ed anche quello più singolare e problematico) è che l’opponente (attore formale) è convenuto in senso sostanziale, mentre l’opposto (convenuto in senso formale) è attore sostanziale.
Tenuto conto del fatto che il giudizio non riguarda il semplice controllo di legittimità della pronuncia del decreto ingiuntivo ma dà vita, come abbiamo visto, ad un giudizio di cognizione piena nell’ambito del quale il giudice deve esaminare compiutamente il rapporto controverso, incomberà sul convenuto opposto l’onere di provare i fatti costitutivi della sua pretesa, mentre sarà l’attore opponente a dover dedurre eventuali fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa fatta valere dal creditore.
E’ opportuno sottolineare, sul punto, come nessuna norma preveda l’acquisizione al fascicolo (d’ufficio o di parte convenuta opposta) dei documenti prodotti nell’ambito della fase sommaria, per cui la produzione di tali documenti costituisce un onere del convenuto opposto.
E’ buona norma produrre questi documenti in sede di costituzione in giudizio e comunque prima dell’udienza di cui all’articolo 183 ad esito della quale viene di solito delibata, ove proposta, l’istanza di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e ciò per dare al giudice tutti gli elementi utili a tale delibazione.
Nessuna norma impedirebbe di provvedere su tale istanza già all’esito dell’udienza prevista dall’articolo 180; si ritiene però opportuno (e l’orientamento giurisprudenziale è pressoché univoco) decidere sull’istanza di provvisoria esecutività del decreto dopo l’intera prospettazione del thema decidendum, ed in particolare dopo che sono state formulate le eventuali eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, ai sensi dell’articolo 180 comma 2 ultima parte.
Il termine previsto in quest’ultima norma va assegnato al convenuto sostanziale, che nel giudizio in questione è l’attore opponente.
E’ appena il caso di notare come l’eccezione di incompetenza per territorio derogabile debba essere proposta dall’attore opponente già con l’atto di citazione in opposizione che è l’atto equiparabile alla comparsa di risposta del giudizio ordinario indicata dall’articolo 38 comma 2 del Codice di rito.
Con riguardo alla questione relativa alla competenza territoriale, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo si devono distinguere due aspetti: uno riguardante la competenza, funzionale ed inderogabile, stabilita dall’articolo 645 del Codice di Procedura Civile, che individua, sempre e comunque, il giudice competente a conoscere dell’opposizione al provvedimento monitorio nell’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto; l’altro, che riguarda la competenza del giudice del monitorio a conoscere della fattispecie dedotta in giudizio.
Il giudice dell’opposizione, che si identifica con lo stesso ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento monitorio opposto, una volta accertata la propria incompetenza territoriale, dovrebbe limitarsi a dichiarare la nullità del decreto ingiuntivo opposto senza disporre la translatio iudicii e senza neanche indicare il giudice ritenuto competente (in tal senso, Cass. 9/6/1990 numero 5623).
Nell’ipotesi in cui, invece, il giudice dell’opposizione si dichiari territorialmente incompetente e rimetta le parti innanzi ad altro giudice, deve ritenersi che il giudizio eventualmente riassunto non sia quello di opposizione al decreto (già esauritosi innanzi al primo giudice che è l’unico inderogabilmente competente) bensì un normale giudizio di cognizione che riguarda la pretesa a suo tempo fatta valere nella fase sommaria.
La Corte di Cassazione, affermando, in via ormai consolidata, un orientamento interpretativo pienamente condivisibile, ha affermato, sul punto, che “La sentenza con cui il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo dichiara l’incompetenza territoriale del giudice che ha emesso il decreto, non comporta la declinatoria della competenza funzionale ed inderogabile di quest’ultimo a decidere sulla opposizione ma contiene, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità del decreto ingiuntivo, sicché la tempestiva riassunzione del giudizio dinanzi al giudice dichiarato competente non può essere riferita alla causa di opposizione al decreto, che ormai non esiste più, ma costituisce un nuovo atto di impulso di un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la medesima domanda proposta con il ricorso in sede monitoria.” (Cass. 9/11/2004 numero 21297 e, nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 19/1/1979 numero 408; Cass. 19/7/1996 numero 6510; Cass. 12/2/1998 numero 1485).
Con riguardo alla questione delle modalità di chiamata in causa di un terzo, deve rilevarsi un totale vuoto normativo posto che gli articoli 167 e 269 non sembrano sic et simpliciter applicabili al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
L’opinione preferibile sembra essere quella che consente all’attore opponente di provvedere direttamente alla chiamata in causa di un terzo (posto che non avrebbe senso la richiesta di spostamento di un’udienza fissata da esso opponente medesimo) e che fa carico al convenuto opposto di chiedere l’autorizzazione al giudice, ai sensi del terzo comma dell’articolo 269 posto che l’esigenza della chiamata di un terzo non può che nascere dalle difese del convenuto sostanziale.
Per quanto concerne le domande riconvenzionali, queste possono essere proposte (nei limiti di cui all’articolo 36 del Codice così come costantemente interpretato dalla giurisprudenza) dall’attore opponente; l’opposto, invece, che rispetto a queste domande assume la veste di convenuto, potrà, a sua volta, proporre domande riconvenzionali collegate alle riconvenzionali di controparte (reconventio reconventionis) mentre con riferimento alla sua domanda originaria (contenuta nel ricorso per decreto ingiuntivo) potrà solo provvedere all’integrazione della stessa, con le domande accessorie.
Questi i temi principali che riguardano la struttura e l’impianto del procedimento.
Le altre questioni, specificamente riferibili all’iter processuale, tenuto conto dell’intento e della natura della presente relazione, possono qui soltanto essere indicate: presupposti per la provvisoria esecutività del decreto concessa dal giudice istruttore; adottabilità delle ordinanze di cui agli articoli 186 ter e 186 quater del Codice di rito; applicazione della norma introdotta (nell’articolo 648) dall’articolo 9 comma 3 del D.L.vo 231/2002 che consente l’esecuzione parziale del provvedimento monitorio opposto.
Si può solo affermare, in questa sede, che nella soluzione delle numerose questioni poste dalla pratica quotidiana, l’interprete dovrebbe utilizzare canoni ermeneutici che tengano conto della particolare struttura del procedimento, valorizzando le soluzioni basate su principi costituzionali e tendendo a riequilibrare la reciproca posizione delle parti, sul presupposto che il debitore, almeno nella fase iniziale e sommaria del procedimento, subisce l’iniziativa del creditore senza avere la concreta possibilità di interloquire su quanto da questi dedotto.